“Quella volta ritengo di aver avuto una grande fortuna”, incomincia a dire lui certe volte davanti ai suoi familiari, durante alcuni pranzi magari allargati anche a qualche altro parente, durante quelle rare domeniche di festa per una ricorrenza importante oppure per il compleanno di qualcuno di loro, quando si beve un bicchiere di più e la lingua d’incanto si scioglie. Naturalmente nessuno in quei casi lo incoraggia a riprendere ancora quell’argomento che tutti hanno già sentito in altre occasioni, ma risulta comunque impossibile fermarlo quando ha deciso ormai di parlare di quei suoi ricordi di gioventù. Così tutti ridono e dicono magari qualcosa di buffo, tanto per prenderlo in giro in maniera molto bonaria, sostenendo che quella storia ognuno di loro oramai la conosce benissimo, però lui ugualmente va avanti, come dovesse spiegare a tutti per l’ennesima volta qualcosa di fondamentale. “Si tratta di cose che tutti prima o dopo devono sapere”. E con questo preambolo la disamina dei fatti a quel punto si allunga come per un incanto, e tra un distinguo obbligatorio ed una spiegazione minuta ma importante, va a soppiantare qualsiasi altro argomento di conversazione davanti al lungo tavolo di vecchio legno nel salotto di casa.
È quasi un sigillo per la sua personalità in fondo buona e altruista, quel suo raccontare la propria gioventù ormai lontana, spesso ripercorrendo con il pensiero quella mattina degli anni quaranta, quando stava nascosto con gli altri partigiani in un bosco, nel silenzio, ad aspettare notizie fresche su dal paese, per intervenire con una imboscata contro tedeschi e fascisti lungo la strada. Ed alla fine invece, dice lui adesso, arriva trafelata questa ragazza con la sua bicicletta, lasciando lo stradello fangoso e venendo ad infilarsi con una certa cautela tra le sterpaglie, proprio dove siamo noi, giusto per dire a tutti i ragazzi nascosti che “si stanno muovendo”, e che “stanno venendo in armi a perlustrare la zona”. Ed allora non c’è tempo da perdere, e l’unica cosa da fare è quella di prendere il sentiero più impervio, verso il punto più alto di quella piccola montagna alle spalle, e tendere davvero un’imboscata a quei tedeschi che avranno l’ardire di giungere fino là in alto. Ma lui, proprio mentre decidono, si fa male stupidamente, si storce una caviglia, non può più camminare dal dolore, perciò convince gli altri a lasciarlo, restando indietro da solo, e poi sale su un albero con le mani nude, portando con sé il moschetto ed il suo coltellaccio, restando in attesa, su un grosso ramo. Ci resta per tutto il giorno, e quando fa buio torna a scendere, lentamente, con grande cautela per non provocare rumori. E’ poco tempo che si è dato alla macchia, non conosce benissimo neppure quei suoi compagni, ed adesso non sa di preciso neanche dove potrebbero essere andati.
Il giorno seguente, quando inizia ormai ad albeggiare, torna sull’albero dal quale non si è allontanato, ma il silenzio e la fame a un certo punto lo costringono a muoversi, anche perché la caviglia gli fa meno male, e tutto sommato può camminare, anche se zoppicando leggermente. Così torna indietro, scende giù nella parte più a valle del bosco, ma con lentezza e con grande attenzione, fermandosi ogni poco ad ascoltare qualsiasi rumore. Infine arriva al viottolo, quello che riporta alla strada verso il paese, però non si vede nessuno, sembra non ci sia proprio anima viva da quelle parti. Prende la strada deserta alla fine, deciso a spiegare a chiunque lo intenda fermare che è andato soltanto a caccia di qualche fagiano, ma senza fortuna, e con grande circospezione giunge ancora da solo in vista di quelle prime case di pietra. Gli viene incontro una donna, a piedi, lui la conosce, così la ferma per chiederle se ci sono notizie, e lei lo guarda fermandosi d’improvviso come fosse uno spettro: “li hanno fucilati tutti”, gli dice tenendosi la testa con le due mani; “ma tu, com’è stato possibile, forse non eri con gli altri”. “Così”, dice alla fine lui ai parenti, al termine di quel suo racconto. “Non ero con gli altri quel giorno. Si vede che ancora non era giunto il mio ultimo fiato. Perciò ringrazio ancora quel caso che mi ha fatto campare per tutto questo tempo, anche se ho sempre con me un pensiero costante, proprio per quei miei bravi compagni rimasti lassù”.
Bruno Magnolfi