<<Pronto; sì, sono io>>, dico al telefono frettolosamente, colto alla sprovvista come mi sento, da quella voce gracchiante del mio capoufficio che mai avrei pensato potesse chiamarmi a casa, mentre ancora sono coperto da un certificato medico che attesta la mia impossibilità, almeno momentanea, nel recarmi al lavoro. <<Come stai, Achille?>>, mi fa quasi ridendo, meravigliandomi per essersi ricordato addirittura il mio nome di battesimo, in un ambiente dove generalmente gli impiegati si chiamano tutti quanti tra loro solamente per cognome. <<Signor Mari>>, rispondo io, ancora impacciato. <<Ma che sorpresa>>, gli dico. <<Inizio a stare abbastanza bene, ad essere sincero. Tanto che contavo di tornare in ufficio. La prossima settimana, forse>>. Intanto avverto una certa confusione intorno a chi mi sta parlando, anche qualche risata lontana, come se il capufficio fosse interrotto da qualcuno vicino a lui che intanto gli sta parlando forse di qualcos’altro. <<Bene>>, fa subito il signor Mari. <<Qua stiamo un po’ in difficoltà con gli inserimenti dei dati nel sistema, ma avanti di assumere un nuovo impiegato, si voleva conoscere i tuoi tempi, in modo da evitare di rimpiazzare il tuo posto di lavoro>>. Resto folgorato da queste parole schiette e tremende. Non pensavo si potesse giungere così in fretta ad un gesto del genere. Quasi fossi un assenteista. Oppure uno che in passato abbia mai ecceduto nei certificati medici. <<No>>, fo io, forse già balbettando. <<Sto per rientrare al lavoro. Non si preoccupi. Questione di pochi giorni. Tutto tornerà al proprio posto. Presto, senza alcun problema, stia certo>>. Avverto una nuova pausa, come se all’apparecchio nessuno mi avesse del tutto ascoltato. <<Bene, Achille; allora ti aspettiamo: in gamba, mi raccomando, perché qui c’è anche del lavoro arretrato da sbrigare e da sistemare>>. E poi non faccio neppure in tempo a formulare un saluto, che il signor Mari ha già riagganciato.
C’è stato un tempo, oramai molti anni fa, in cui i rapporti di lavoro tra tutti i collaboratori di quegli uffici apparivano diversi, ed ogni impiegato si sentiva tranquillo, quasi protetto in qualche modo dai propri colleghi e superiori. E poi si scambiavano favori, e tutto scorreva quasi d’incanto, senza mai alcun problema. Poi le cose sono cambiate, ed ognuno si è ritrovato da solo dietro al proprio schermo dell’elaboratore, senza più amici e colleghi a sostenerlo, ma unicamente circondato da certe vipere pronte a parlar male degli altri pur di ottenere la simpatia di qualcuno che conta. Mia moglie adesso, che mi aveva passato la telefonata pochi minuti fa, mi guarda spaurita, come se avesse perfettamente compreso il traballare della mia posizione lavorativa. <<Devi rientrare>>, mi fa tenendo una mano dentro l’altra, con un’espressione quasi attonita; <<stai meglio, indubbiamente, questo periodo di riposo ti ha senz’altro giovato. Allungare ancora i tempi sarebbe probabilmente una noia anche per te>>. La guardo per un momento, poi torno a sedermi, dopo aver parlato al telefono restando in piedi. <<Ma certo>>, le dico. <<Qua mi sto semplicemente annoiando>>. Dalla cucina giunge intanto un lieve odore di verdure bollite, e Celeste, ricordandosi di avere qualcosa sul fuoco, si affretta a tornare nell’altra stanza, per la preparazione del nostro pranzo.
Nel periodo in cui frequentavo una mia collega, e mi vedevo con lei di nascosto in genere per un paio di volte di ogni settimana, qualcuno molto curioso nei nostri uffici si era senza dubbio accorto della nostra relazione, e sembrava però quasi invidiare la mia disinvoltura, tanto che forse già sono nati proprio in quel momento i primi comportamenti avversi alla mia condotta. Me ne ero fregato, a quell’epoca, ed avevo tirato avanti così come mi pareva meglio, senza preoccuparmi, però sicuramente più di un impiegato deve aver immaginato che prima o dopo si sarebbe verificata per me una specie di resa dei conti. Non mi lamento adesso, quello che ogni giorno porto avanti non è nient’altro che il mio lavoro, e non c’è dubbio che devo proseguire a dedicarmi a questa attività senza mai guardarmi dietro. Non ho fatto mai alcuna carriera, sono rimasto una pedina qualsiasi come molti insieme a me, ma non è possibile nelle mie condizioni far altro che accettare quello che ho, ed abbassare la testa nei confronti anche di un qualsiasi capoufficio che magari si diverte alle mie spalle mettendomi paura. Tornerò al lavoro, e le cose riprenderanno il loro andamento di sempre, ho pensato mentre stavo scambiando un lungo sguardo con Celeste. Lei ha sorriso, forse sperando così di incoraggiarmi, ma avrei preferito non avesse avuto in questo momento alcuna espressione.
Poi ci siamo messi a tavola, tanto i nostri figli spesso tornano più tardi, in certi giorni restano persino fuori a pranzo, e così passiamo una mezz’ora io e Celeste uno di fronte all’altra, quasi senza dirsi una parola, con gli occhi sulle stoviglie, anche se lei immagino non parli con me soltanto per evitare di dare disturbo ai miei pensieri. Così io a volte le chiedo: <<Come va?>>, tanto per sentire di nuovo la sua voce, per scuoterla dal torpore in cui sembra caduta; ma lei risponde subito: <<Benissimo>>, anche se forse lo dice soltanto per una forma di ordinario automatismo.
Bruno Magnolfi