Incapacità d’aiuto.

 

Ero fermo, in una giornata qualsiasi di poco più di un anno fa, seduto dietro la mia scrivania, praticamente come sempre, a riguardare i vari appuntamenti in calendario per il mio lavoro. <<Adriano>>, mi aveva detto d’un tratto Elisabetta, appena con un insolito filo di voce, richiamando la mia attenzione dalla zona opposta della stanza adibita ad ufficio dove stava la sua postazione. L’avevo guardata, avevo atteso che mi dicesse qualcos’altro, ma subito ero stato colto dalla sua inedita espressione sconfortata, come per un’improvvisa incapacità ad andare avanti, accompagnata da uno strano sguardo lacrimoso, quasi per un evidente smarrimento, dietro le lenti spesse dei suoi occhiali. Avevo atteso giusto un attimo, prima di decidermi, d’altronde com’era naturale, a chiederle qualcosa, ma in quel momento preciso per combinazione era squillato il telefono. Avevo risposto subito, ascoltando la voce di uno dei nostri possibili clienti che desiderava spostare l’orario per visionare un appartamento in vendita, così avevo trattato la faccenda, mi ero rinfrescato la scaletta, poi mi ero segnato il nuovo appuntamento, infine avevo salutato. Intanto avevo notato Elisabetta spostarsi sul retro della nostra piccola agenzia immobiliare mentre si soffiava il naso, così quando avevo riagganciato il telefono, mi ero alzato per raggiungerla, e soprattutto per sapere cosa stesse succedendo. <<Niente>>, aveva detto lei riprendendo il suo posto e l’atteggiamento di sempre. <<Soltanto una cosa mia, senza importanza>>. A quell’epoca non esisteva quasi alcun dialogo tra noi, escluso quello più stringente riferito alle attività dell’agenzia, ed anche se a volte mi ero interrogato per comprendere se dipendesse in qualche maniera da me quella nostra distanza, in realtà continuavo a dare la colpa di tutto al carattere duro e scostante della mia collega.

Non stavo male in ufficio, mi bastava soltanto ignorare la presenza di Elisabetta, anche se eravamo solo in due, e fare in modo che la mia zona di lavoro in agenzia fosse come impermeabile alle sue frequenti espressioni mentre rispondeva al telefono, ed anche al suo modo di parlare spesso da sola quando digitava qualcosa sul suo elaboratore elettronico. Naturalmente per lei, nei miei confronti, probabilmente era la medesima cosa, e difatti difficilmente volgeva lo sguardo verso di me, che comunque, proprio per contratto, dovevo occuparmi dei sopralluoghi agli appartamenti, finendo per rimanere in ufficio a smistare contatti e a prendere gli appuntamenti, appena per un’ora o due ogni giorno. Mi era comunque tornato strano che quella volta si fosse rivolta a me chiamandomi per nome ed assumendo un’espressione che non le avevo mai visto sulla faccia; come dovesse confidarmi qualcosa di estremamente personale, addirittura di intimo, il che sarebbe stato ancora più insolito di tutto il resto, in virtù proprio della sua evidente scarsa considerazione nei confronti della mia persona. Certe volte, nel lungo periodo in cui ho lavorato con Elisabetta, mi sono chiesto, almeno in svariati casi, se quell’atmosfera instaurata fin da subito tra me e lei, e continuata per tutta la manciata di anni di lavoro assieme, non fosse addirittura il risultato di un mio comportamento, qualcosa capace di procurarle una particolare avversione, e del quale non ero mai stato capace di comprendere la vera natura, insomma quasi il risultato di un mio personale atteggiamento del tutto inconsapevole, mediante il quale la situazione instaurata tra di noi, fin dal momento in cui ci eravamo conosciuti, si era mostrata assolutamente non modificabile.

Ciò non toglie nulla al fatto che io quel giorno non sia proprio riuscito a dare una spiegazione al suo comportamento così insolito, anche se in fondo niente con tutto questo mi faceva smettere con naturalezza di continuare a farmi gli affari miei. In seguito, non ci avevo più pensato, anche perché niente del genere si era più verificato, ma alla luce di quello che molto più avanti mi aveva detto la sua amica Carla, cioè la storia dei suoi nascosti sentimenti verso di me, le cose avevano iniziato ad assumere aspetti almeno in parte più chiari e addirittura comprensibili. Ciò che però mi tornava come minimo insolubile, era questa incapacità completa ad instaurare una vera comunicazione tra me e lei, come se una parete divisoria, magari in apparenza trasparente, eppure solidissima, tra i nostri diversi e contrastanti modi di essere, si fosse interposta nel nostro ufficio fin da subito, e in una maniera oltremodo invalicabile. Me ne ero comunque fatto una ragione, qualsiasi motivazione ci fosse stata dietro, e la mia personale capacità di adattarmi alle varie situazioni, aveva fatto in modo che non me ne fossi mai assolutamente preoccupato, lasciando a tutto quanto il corso al quale, quello scandire dei mesi e anche degli anni, sembrava proprio. Quel giorno, comunque, ricordo che restai perplesso, ed anche se mi era stato difficile, visti i trascorsi, porre ad Elisabetta qualche domanda diretta, ugualmente sono sicuro adesso che provai un certo sfumato dispiacere, sia per le sue sofferenze incomprensibili, che per la mia evidente incapacità di esserle d’aiuto.

Bruno Magnolfi

Incapacità d’aiuto.ultima modifica: 2022-11-06T18:24:50+01:00da magnonove
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