Faccia senza maschera.

 

Mi nascondo, come sempre ho fatto in questi ultimi tempi, perché non voglio che qualcuno guardi ancora con disprezzo la mia faccia. Osservo le altre persone da una feritoia, studio il modo di fare che qualcuno tiene quando sta semplicemente camminando, o mentre parla alle persone che conosce, o nel momento in cui sta riflettendo su qualcosa magari di importante. Poi rientro nel buio di questa chiesetta sconsacrata, incastonata tra stradine antiche, con il suo portone scuro che ha ceduto facilmente quando l’ho forzato, e poi mi ha accolto da subito come fosse la mia vera casa, lasciandomi la possibilità dal buio di guardare la realtà nel chiaro della luce, attraverso queste profonde crepe e tutte le spaccature prodotte dal tempo nell’incidere ogni giorno il legno vecchio e già tutto rovinato, scrutando una realtà che persiste incessante a scorrere là fuori, dove ogni individuo continua a procedere in avanti nella ricerca estenuante di un suo piccolo equilibrio, di una metrica migliore per misurare il tempo, di una maniera per immedesimarsi nel presente che gli procuri più coraggio, e che alla fine sia soltanto sua.

C’è una ferita sul mio viso, un taglio profondo che mi è stato regalato da un coltello ormai tanti anni fa, quando ero giovane e cercavo chissà cosa in mezzo a tutti, senza mai abbassare lo sguardo quando c’era da dire qualche parola forte. Poi si cambia, ma restano i segni dentro e fuori. Un avanzo di galera, si direbbe, con un passato burrascoso sempre al limite. Cosa importa, penso; tutto ciò che possediamo è adesso, qui, tanto vicino da toccarlo, il resto non ha proprio alcun valore. Nessuno mi ha più dato la possibilità di lavorare, se non in quell’oscuro mondo della piccola criminalità, che ha sempre cercato di risucchiarmi fin da subito, senza concedermi mai l’occasione di rimanerne fuori. Adesso mi sento soltanto vecchio e pure stanco: non voglio più far parte delle notizie buone per un trafiletto sul giornale di quartiere: ho chiuso, mi ritiro qua dentro, nessuno verrà mai a cercarmi tra queste panche polverose ed il tetto già mezzo cadente.

Penso: non c’è più tempo per far altro; i grandi progetti giovanili, la voglia di costruire un personaggio attorno a me, di farmi valere in qualche campo, di raggiungere almeno una normalità da spendere come tutti gli altri; tutto svanito, un segno indelebile sopra la faccia che parla da solo al posto mio, e poi via, nessuna diversa possibilità per essere un po’ come sono tanti, forse semplici, ordinari, qualsiasi, però concreti, capaci di costruire qualcosa che possa chiamarsi una famiglia, un futuro, una sicura positività. Osservo la strada attraverso le crepe del legno sul portone: potrei provare perfino invidia per coloro che spandono tranquillità mentre passano qua attorno; ma non è questo che mi interessa veramente. Mi basta che tutti si dimentichino di me e della mia espressione deturpata. Non ho più neppure un vero sentimento d’odio nei confronti di colui che ha ridotto il mio viso in questo modo; in fondo quando si frequenta un brutto ambiente, il minimo che possa accadere è che si resti segnati da qualche bravata casuale. No, non è stata una persona a fare il danno: è stato un periodo, un ambiente, uno sbagliare strada da parte mia, qualcosa che mi ha segnato nel profondo, fino a portarmi adesso a cercare un chiuso che non permetta più a nessuno di chiedermi ancora cosa sia successo alla mia faccia, oppure ad osservarmi a fondo proprio come si fa con un mascalzone che può soltanto essersi meritato quello che riesce oggi a mostrare quasi con orgoglio, senza neanche la capacità di provarne la vergogna che invece dovrebbe.

Bruno Magnolfi

 

Faccia senza maschera.ultima modifica: 2020-11-05T20:00:46+01:00da magnonove
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