Quando entrai nel campo sportivo così piatto e liscio d’erba rasata, forse appena troppo alta ai margini, ma rada e quasi inesistente nelle zone più calpestate, mi parve subito troppo grande per me, per quei miei piedi piccoli, serrati nelle scarpe troppo nuove, da calcio, appena comperate per l’occasione, soltanto un numero più grandi in considerazione della mia crescita veloce. Gli altri ragazzi correvano, scaldavano i muscoli, ognuno nel suo gruppo contraddistinto da un colore di maglietta, e soffiavano forte l’aria del pomeriggio autunnale, umido, mentre qualcuno qua e là rideva forte, parlando a voce alta di qualcosa. Avrei voluto andarmene subito, ma capivo che sarebbe stato peggio. L’allenatore disse qualcosa con le mani, e noi, i più piccoli di tutti, iniziammo a correre lentamente, lungo la striscia bianca. Ero minuto e fragile di corporatura, un po’ di sport mi avrebbe fatto bene, dicevano i miei, ma io mi sentivo ancora più piccolo e fragile in quella situazione; sentivo la fronte imperlarsi di sudore e anch’io sbuffavo aria come tutti, ma con un senso di fastidio crescente. Mio padre, assieme ad altra gente, sicuramente mi stava osservando fuori dalla recinzione del campo sportivo, anche se non riuscivo ad individuarlo, e probabilmente si sentiva orgoglioso di me, dei miei progressi, come li chiamava lui, e del mio farmi grande. Poi arrivarono i palloni e tutti iniziarono a scambiarsi grandi passaggi con vistose destrezze di piede. Io mi misi assieme ad un altro che conoscevo, e mentre lui si allontanava arretrando per permettermi di fargli un passaggio, calciai il pallone in malo modo, con molta più forza di ciò che sarebbe servita, proiettandolo verso altri ragazzi lontano. Continuai così per un po’, senza neppure ottenere migliori risultati, ma divertendomi a calciare delle pallonate esagerate, e a stare tanto distante dall’altro da dovergli urlare, fino a quando l’allenatore ci fermò, in malo modo. Mi piaceva aver fatto subito qualcosa di diverso da tutti, era un po’ come aver detto a voce alta che quel gioco era una sciocchezza, e chi ci credeva era un tonto. Poi venne intavolata una partita vera e propria, mescolando dentro alle due squadre elementi di ogni colore di maglietta. Terzino destro fu il ruolo a cui fui assegnato, e dopo il fischio mi parve tutto divertente visto che si limitavano tutti a piccole scaramucce al centrocampo dalle quali risultavo praticamente estraneo. Fu solo quando in due vennero correndo forte verso di me che tutto mi parve sprofondare. Feci il possibile, mirando il pallone che si muoveva troppo rapidamente tra quei piedi scalcianti e veloci, e mi difesi in qualche modo da quei corpi sudati smanettanti e sgradevoli, ma finii a terra quasi subito con una forte sensazione di dolore frammisto al sapore forte della terra umida. Si andò avanti per parecchio tempo alla stessa maniera, e tutta quella faccenda di correre dietro ad una palla sfuggente mi pareva sempre più idiota, fino a che, liberatoriamente, l’allenatore fischiò che era ora di smetterla e di andare agli spogliatoi. Uscii lentamente dal campo, con sollievo, mentre gli altri ragazzi urlavano tra loro cose incomprensibili continuando a farsi degli scherzi e correndo avanti e indietro, quasi a mostrare che avrebbero potuto continuare a giocare per ore senza neanche durare fatica. Negli spogliatoi arrivai tra gli ultimi, e la puzza di sudore era fortissima. Gli scherzi e le risate erano continue, e i più violenti e aggressivi si schizzavano, nudi come vermi, sotto alle docce fumanti e rumorose. Naturalmente mi limitai al cambio delle scarpe, che riposi in una piccola sacca azzurra che avevo lasciata appesa ad un attaccapanni, e senza salutare nessuno uscii per primo e me ne andai. Ovviamente non tornai mai più in quel campo di gioco e in quegli spogliatoi, ma lo strascico della vicenda fu lungo e doloroso. Mio padre conosceva l’allenatore, ed ambedue incontrandosi qualche volta nei giorni seguenti e ancora dopo, avevano continuato ad insistere, cercando soluzioni alla mia timidezza per farmi continuare con quegli allenamenti. Alla scuola elementare, già la settimana successiva, qualcuno aveva notato che non ero andato alla lezione di calcio, e più che domandarmene il motivo mi era stata fatta qualche battuta frizzante. Capivo bene che chi rifiutava come me un‘opportunità di quel genere, e cioè imparare lo sport nazionale, doveva essere deficiente o pressappoco, così non mi rimase altro che fortificarmi su un comportamento da “diverso da tutti”, come diceva adesso anche mio padre, e cercare di interessarmi di cose strampalate. Abolii le figurine dei giocatori di calcio pur continuando a piacermi come prima, e smisi del tutto di dichiararmi tifoso di una qualche squadra, cosa praticamente impensabile in quegli anni; e quando mio padre una domenica mi portò a vedere una partita di pallone nel solito campo degli allenamenti dove giocava la squadra del paese, io mi limitai a cogliere un mazzolino di fiori di campo che crescevano spontaneamente ai margini dello spiazzo, e fui contento solo quando l’arbitro fischiò la fine e si andò via.
Bruno Magnolfi