Scelte obbligate.

 

Mio padre, dal periodo in cui dalla ditta per cui lavora come autista gli hanno consegnato un autocarro nuovo, ha atteso ovviamente ancora qualche giorno, ma subito dopo mi ha portato con sé per farmi vedere tutte le attrezzature di bordo in quel mezzo, e per spiegarmi anche alcune caratteristiche importanti. Mi sono sentito orgoglioso di lui, era la prima volta che faceva con me una cosa del genere, e ritrovarmi con mio padre lì davanti su quel bestione rosso pronto a ruggire, mi faceva sentire una persona importante, al punto che ho pensato che avrei voluto fare il suo stesso mestiere quando fosse giunto il momento per poter scegliere. Sono comunque rimasto in silenzio per tutto il tempo, tanto mi sentivo emozionato, e quando siamo scesi dalla cabina di guida e mio padre ha chiuso a chiave gli sportelli, mi è parso che la giornata improvvisamente fosse magnifica, anche se lui non ha detto più niente, e siccome era domenica, mi ha fatto segno soltanto di andarmene a casa, visto che lui forse si sarebbe fermato all’osteria a bere un bicchiere con qualcuno degli uomini del paese di sua conoscenza e con cui forse voleva festeggiare l’autocarro nuovo. Per mia mamma invece non è cambiato niente, e difatti non ha fatto cenno alcuno al nuovo strumento di lavoro di papà, proseguendo come sempre a sistemare la casa e ad occuparsi del cucito, che dice d’essere il suo utile lavoretto per far arrotondare lo stipendio magro di mio padre. Non ho mai visto mia mamma troppo contenta di qualcosa: la sua giornata sembra sempre la medesima, a testa bassa a fare gli orli o a sistemare qualche vestito, oppure a fare le pulizie in tutta la nostra casa. Quando io sono nell’appartamento sbuffa, anche se sto seduto in un angolo in silenzio, e mi dice subito di andarmene fuori, che c’è il sole, e che lei ha da fare, che le sono soltanto d’impaccio.

Io fingo sempre di essere contento di uscire, come se andassi incontro a chissà quali divertimenti, ma in realtà spesso mi limito a mettermi seduto su un gradino da qualche parte davanti alle abitazioni rimaste vuote, oppure su una pietra, e a starmene lì senza fare niente. Anche se passano davanti a me dei compagni di scuola che conosco, in genere rivolgo loro soltanto un cenno, come se stessi riflettendo su cose molto più importanti di ciò a cui loro prestano la maggior parte dell’attenzione, e spesso questo è anche vero, visto che tutti i ragazzi non riescono a impegnare la mente altro che dietro al pallone o ad altre cose stupide del genere. A volte qualcuno mi invita anche a seguirli, ad andare al solito campetto con gli altri a fare due scambi a calcio, oppure a sederci sulle solite altalene sgangherate e arrugginite lì vicino, ma molto spesso mi limito a rifiutare l’invito senza neanche dare una vera spiegazione. Ciò che a volte non comprendo affatto è il motivo per cui mia mamma non vuole che io resti troppo in casa, neppure per fare i compiti di scuola. È come se creassi un ingombro tra le stanze, che la mia presenza provocasse in lei un peso da portare, visto che invece, quando torna mio padre ogni domenica, tutto per lei diventa differente. Lo avrei compreso più avanti, tutto ciò, quando alla visita medica per il servizio militare mi dissero che ero orfano di madre. Protestai con il maresciallo che leggeva i dati, ma lui mi spiegò che non ci poteva essere un errore. Così compresi che ero stato cresciuto da una donna che non era la mia vera madre, anche se io l’avevo sempre chiamata mamma, e che lei non era riuscita ad avere per me tutto quell’affetto che in genere un genitore esprime per il proprio figlio.

Ma ai tempi della scuola ancora non lo sapevo, e comunque evitavo di pensare a cose del genere, e credevo che la mia mamma avesse solamente una personalità chiusa e particolare, e le piacesse occuparsi delle sue cose in solitudine, senza troppi disturbi. Solo all’età di vent’anni mio padre mi indicò dove stava seppellita la mia vera mamma, ed io ci andai da solo, senza riuscire a comprendere di me se stavo davvero provando della sofferenza, forse del rammarico, oppure solo un esile dispiacere per qualcosa che poteva essere andato davvero in altro modo. Stetti lì, davanti alla tomba di una persona che in fondo non avevo mai conosciuto, e di cui non sapevo quasi niente, visto che persino il ricordo di lei, da parte di mio padre, era stato in fretta accantonato. Avrei voluto piangere, forse disperarmi per una situazione tanto assurda quanto dolorosa per me, ma la cosa più complicata che sentivo dentro era data da tutte quelle variazioni di sentimenti verso le persone della mia famiglia che dovevo in ogni caso mettere un po’ in ordine. Me ne andai da casa, poco tempo dopo, chiudendo alle spalle quella porta e senza lasciare dietro alcun rimpianto, anche se ero cosciente che quella che seguivo in quel momento non era certo una mia scelta.

 

Bruno Magnolfi

Scelte obbligate.ultima modifica: 2024-05-31T15:46:51+02:00da magnonove
Reposta per primo quest’articolo