Memoria lunga.

 

<<Aspettami qua>>, fa il mio amico e compagno di classe delle elementari, mentre entra nell’ingresso di casa sua, al piano terra, perché a quest’ora deve sempre farsi vedere da sua mamma, che altrimenti sta in pensiero e arriva più tardi lo sgrida forte, tanto che certe volte giunge anche a strattonare suo figlio quasi senza un vero motivo, e a tiragli anche qualche scappellotto. Io annuisco, aspetto sul marciapiede, anche se questo pomeriggio fa un po’ freddo, e starei meglio in qualche luogo chiuso, magari anche soltanto a guardare qualcuno mentre gioca a carte nella piccola Casa del Popolo poco lontano. Passa il tempo, ed io resto lì, fino a quando decido che il mio amico è stato evidentemente trattenuto in casa da sua madre, e quindi posso andarmene via, tanto più che mi sento ormai intirizzito dal gelo. Mi allontano lentamente, però mi sento giù di morale, e questa solitudine mi appare un po’ pesante, addirittura come una sgridata che non merito. Ho messo in fila i lapis e le penne dentro al cassetto del bancone in questo angolo del ricevimento, e all’improvviso tutto l’albergo mi sembra più in ordine, anche se ho notato che una matita è più lunga delle altre, e non sta bene in fila. Mi piace, durante il mio turno di portiere di notte, sistemare tutto quanto: è come se lasciassi un messaggio preciso ai miei colleghi che arriveranno domani mattina per affrontare la loro giornata di lavoro. Forse la solitudine era un destino segnato fin da quel momento per me, penso mentre metto la matita lunga sopra al piano del bancone, da sola come è giusto che rimanga.

Mentre mi allontano però, il mio amico mi raggiunge. dice che adesso deve tornare subito a casa, deve aiutare la mamma a fare qualche cosa, così in fretta mi saluta e poi se ne va. Non cambia la sostanza, non ci sono altri ragazzi della mia età che posso incontrare da queste parti, e dentro casa mia madre dice che le sono d’ingombro, perché lei deve pulire e sistemare le nostre stanze, dare la cera ai pavimenti e non so che altro fare, per cui la soluzione è semplicemente quella di starmene in giro senza una meta, magari cercando qualcosa a cui interessarmi. <<Paolo>>, dice qualcuno alle mie spalle, e quando mi volto riconosco un mio compagno di classe che sta andando da qualche parte insieme ai suoi genitori. Lo saluto come sempre e lui va oltre, soddisfatto e orgoglioso di non essere da solo come me. Passare i pomeriggi in questo modo forse non è il massimo delle possibilità, però ormai sono abituato, così credo che non ci sia niente di male in questo andare a zonzo, anche se fino a qualche tempo addietro mi pareva triste il mio destino. Alla fine entro nella casa del Popolo, ci sono quattro tavolini nella saletta di fronte al bancone dei caffè, e soltanto uno è occupato da quattro anziani giocatori che stanno studiando la mano per mettere sul piano la carta giusta. Nessuno mi dice niente, neanche il cameriere, neppure quando mi siedo senza far rumore dietro ad uno dei giocatori.

Nessuno tra i miei compagni verrebbe mai in un posto come questo, rifletto, anche se qualche volta qui entra qualche gruppetto della scuola giusto per il tempo di comprare delle gomme da masticare o delle caramelle. Però è sempre meglio fare la figura di uno che gli altri scansano, piuttosto che stare fuori al freddo, penso, e poi mi fa sentire grande rimanere qui, anche se devo stare zitto e non assumere neppure un’espressione con la faccia. <<Stai con me, bimbo>>, mi dice alla fine il giocatore che ho più vicino. <<Sento che mi porti fortuna, per cui non muoverti da dove stai>>. Sorrido per un attimo, ma subito riprendo il mio solito sguardo neutrale, e cerco di concentrarmi sul gioco in funzione delle carte che vedo oltre la spalla di quello che ha parlato. Ho imparato questo gioco esattamente osservando qualcuno, però fino ad oggi non ho mai provato a fare una sola mano con dei giocatori esperti come quelli che frequentano la Casa del Popolo. Non importa, per me va bene passare un po’ di tempo e divertirmi ad ascoltare le poche parole che si scambiano ogni tanto i quattro al tavolino. Non è molto diverso adesso stare dietro al banco del ricevimento di questo albergo, anche se sono trascorsi da allora più di quarant’anni: il tempo scorre lentamente anche qui, e fuori dalla porta a vetri ogni tanto transita una macchina che se ne va per i fatti propri.

Poi i giocatori smettono, si alzano, pagano da bere, fanno qualche battuta spiritosa, e l’uomo di prima mi batte una mano sulla spalla: <<bravo>>, dice guardandomi; <<mi hai fatto vincere; prenditi una spuma da bere, o qualche caramella, te la sei meritata>>. Mi schernisco, <<non importa>>, dico sottovoce, e subito prendo la porta del locale e torno ad uscire sulla strada. Adesso tira vento, mi sento sbattuto di qua e di là anche dalla natura, e penso che adesso sia giunta proprio l’ora per tornarmene a casa e mettermi in un angolo a leggere un fumetto per conto mio; e magari va bene anche qualcuno tra quelli di cui oramai da tempo conosco a menadito tutta la storia.

Bruno Magnolfi

Memoria lunga.ultima modifica: 2024-03-06T16:11:54+01:00da magnonove
Reposta per primo quest’articolo