Via dell’Oriuolo.

 

Antonio, avevo detto sottovoce rivolgendomi a lui timidamente nell’ambiente polveroso di quella sala da cinema-teatro minore che peraltro da lì a poco sarebbe rimasta definitivamente chiusa; ho portato qualche pagina, qualche foglio, insomma dei piccoli racconti e qualche appunto scritto proprio da me, che forse potresti anche leggere se vuoi. Ero andato da solo lì dentro in quel pomeriggio letterario, proprio come adesso, durante questa serata tiepida di trent’anni dopo, in quest’altra sala dove improvvisamente si riparla di lui, ora che è morto e che si dice sia stato il più grande di tutti da tanto tempo a questa parte. Ma in quel pomeriggio lui sembrava quasi uno qualsiasi, uno senza grandi pretese, a portata di mano, tanto da farsi venire dietro tutte quelle insegnanti in pensione senza molto altro da fare di sabato se non spingersi fino là dentro, forse perché avevano letto o anche solo sentito parlare dei piccoli equivoci, e magari ne erano rimaste persino colpite, proprio come me, che mi sembrava quasi di aver prestato a lui in quel libro alcuni dei miei tanti pensieri.

Antonio si era girato, visto che stava parlando con altri due o tre come di prammatica che lo avevano bloccato immancabilmente dopo la sua lezione meravigliosa da solo sul palco, dietro ad un tavolo semplice, con qualche appunto davanti e proprio nient’altro. Mi aveva guardato per un attimo dietro ai suoi occhiali, forse riconoscendomi, così come si riconosce qualcuno che in qualche modo ti rassomiglia, che ha qualcosa di te, porta all’interno nel proprio intimo una maniera di vedere le cose che non ti è pienamente del tutto estranea. E forse ne aveva avuto improvvisamente paura, nella stessa maniera in cui ci si ritira vedendo un’immagine insolita passarci vicino, magari nella penombra estiva del proprio appartamento, riflessa attraverso il vetro di una finestra rimasta aperta o di uno specchio che non ci si ricordava neppure di aver posizionato proprio in quella posizione, provando quasi ridicolmente timore di sé. Aveva sorriso, e poi risposto qualcosa a quelle persone, ed io ero rimasto impietrito, fermandomi immobile nell’attesa forzata di aspettare di nuovo da lui l’incoraggiamento di cui avevo bisogno, da quel suo sguardo acuto e penetrante, ma che sapeva essere anche umano e mansueto.

Antonio sono qui, avevo pensato con voce forte, e forse tutto lo sgomitare che ho avuto da sempre intorno a queste frasi che in seguito hanno come proseguito ad inseguirmi, come una musica che sembra non voglia mai uscirti di mente, e che probabilmente non dice un bel niente a nessuno, ma che sembra sempre più ricca di sostanza, densa di cose da dire, di sciocchezze da urlare, o anche da riflettere, e che non può passare per sempre come un inutile esercizio di stile, ecco, queste stupide frasi adesso sono qui, volevo dirgli, dentro ai miei piedi, proiettate verso di te che forse sei l’unico che può concedere loro la comprensione che si meritano, se mai di comprensione si sia sentito davvero tutto il bisogno. Ma tu non riuscisti ad udire quel grido, per colpa mia certamente, e ti offristi come era ovvio a qualche officiante in cerca di una dedica su piazza d’Italia. Questo è tutto ciò che ricordo e che adesso mi mette di nuovo in relazione con te, Antonio: praticamente niente, soltanto un sospiro, uno sguardo, un’immagine, un nulla di quanto avrei avuto davvero la necessità. Anche se forse non c’era proprio stato, almeno in queste due sere stupende, neppure bisogno d’altro.

Bruno Magnolfi

Via dell’Oriuolo.ultima modifica: 2018-04-18T21:00:05+02:00da magnonove
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