Davanti all’appartamento al piano terra di Ettore, subito di là dalla strada, abitano due coniugi anziani. Lui non sopporta vederli, ma loro sembra non abbiano nient’altro da fare che starsene lì tutto il giorno, in quel giardinetto ridicolo con le piante stipate in pochi metri quadrati di terra e qualche vaso. Ettore torna nel pomeriggio dal suo lavoro e loro sono lì, che gli sorridono, lo salutano come se non avessero altro da fare. Quel giardinetto e tutta la casa ha un’aria di vecchio, qualcosa di insopportabile, come se ogni cosa, i mobili, le porte, gli spigoli dei muri, fossero stati preservati per un mucchio di tempo da qualsiasi accidente potesse essere mai capitato.
Ettore passa davanti, vorrebbe non voltarsi verso di loro, rinuncerebbe per qualsiasi cosa a quel loro saluto, ma poi un richiamo di disgusto gli fa girare la testa verso la zona di là dalla strada sempre a quell’ultimo momento prima di aprire la porta, giusto per accorgersi che loro sono lì, lo stanno guardando da dietro la loro ringhiera, stanno apprezzando che lui rientra a casa all’orario di sempre, senza tardare, senza fermarsi in un bar o da qualche altra parte prima di tornarsene a casa.
Farebbe di tutto per scompaginare i loro pensieri, Ettore, i pensieri di quei coniugi anziani, ma il suo è un lavoro sporco, per forza deve tornarsene a casa prima di qualsiasi altra cosa, deve cambiarsi, farsi una doccia, mettersi in ordine. Ettore è sicuro che loro hanno annotato su un calendario tutte le volte che lui ha fatto qualcosa di diverso dal solito, almeno a quell’ora del pomeriggio, quando torna dal suo lavoro. La loro vita vuota di tutto li ha messi in condizione di percepire qualsiasi piccola novità, ogni variazione, qualsiasi differenza, e lui da anni cerca oramai di rientrare dentro casa nell’istante preciso in cui loro si aspettano che lui lo faccia, proprio in maniera da provocare nei loro disegni quasi una piccola delusione, così come immagina, da non lasciare loro alcuna possibilità per scrivere qualcosa su quello stupido calendario.
Immagina una casa, la loro, dove i soprammobili sono tutti al solito posto da almeno cinquant’anni, dove aleggia perennemente odore di minestra nell’aria, dove le parti dei mobili che quei due toccano con le loro mani grinzose, sono più lucide di ogni altra superficie. E poi c’è il giardino, quel buco ridicolo dove nessuna foglia secca riesce a cadere da sola, perché loro sono sempre pronti a toglierla di mezzo un attimo prima, dove i vasi e le piante sono stati collocati una volta per tutte decine di anni più indietro e niente è più riuscito a spostarli. Ettore a volte li guarda dalla finestra e si sente distante da quella vita meschina, gli pare perfino impossibile vivere in quella maniera.
Poi una sera torna più tardi con un amico che è passato a prenderlo all’uscita dal suo lavoro e con il quale si è già bevuto due birre in un bar. Ridono forte di qualcosa loro due, e mentre Ettore cerca la chiave per aprire la porta non riesce a resistere e si volta per dare un’occhiata ai suoi anziani vicini. Loro sono lì, lo stanno osservando, fanno finta di niente per non metterlo a disagio, ma lui dice forte: buonasera, calcando le vocali e dando risalto a quel suo saluto. Loro non rispondono, se non con una semplice occhiata di riprovazione; poi rientrano in casa, si chiudono di nuovo in quei muri logori: saranno andati ad annotare tutto quanto sul loro calendario, pensa Ettore, e intanto assesta una pacca simpatica sulle spalle al suo amico.
Bruno Magnolfi