Un soffio di mare

I due vecchi erano piccoli di statura, ma forse apparivano ancora più piccoli così sprofondati nei due giacconi enormi da inverno, i calzoni di jeans fin troppo larghi, e le berrette di lana scura sul capo calate fino a coprire le orecchie. Parevano due ex-marinai, gente che aveva lavorato su qualche rimorchiatore o che aveva svolto qualche lavoro di mare giù al porto; anche la pelle dei loro visi pareva cotta al sole di passate stagioni, e segnata dal salmastro e dalle mareggiate, come i loro sguardi, sempre pronti a guardare lontano, verso quell’orizzonte perennemente in movimento, denso di novità. Due amici ormai vecchi, pelle e ossa sotto a quegli indumenti, ma duri di scorza, con in testa ancora un qualche progetto, un’idea bislacca come quelle che a volte prendono agli uomini anziani; e stavano lì alla stazione dei treni, le mani sprofondate dentro alle tasche, davanti al loro binario pronti a partire, e intanto si scambiavano qualche parola, qualche impressione, dei ricordi di tempi passati forse, oppure del loro presente, ancora più interessante del resto, e uno dei due, nei momenti in cui l’altro restava in silenzio, diceva soltanto: “Eh si…”, come a voler definire che si era tutti soggetti al trascorrere del tempo, all’ineluttabilità delle cose, al destino. O che la vita, che per loro non aveva segreti, era così, lo sapevano per le dure esperienze che avevano dovuto affrontare, lo sapevano perfettamente con la certezza che era così, che niente si poteva cambiare del suo alveo principale, e solo le piccole cose potevano essere variate, soltanto le sfumature, solo quella piccola umanità che sfuggiva per sua natura alle cose grandi, e loro lo sapevano bene, perché da anni vivevano di quelle piccole cose. Poi arrivò il treno locale e si fermò ai loro piedi con il solito stridore di freni, e i due vecchi salirono, si cercarono un posto a sedere, e si misero comodi ma senza togliersi niente dei loro indumenti, neppure appoggiandosi agli schienali, come dovessero scendere subito. Stavano vicini tra loro, ma non di fronte, bensì affiancati, come a guardare ambedue verso la medesima direzione, e continuavano a parlare come avevano fatto fino ad allora, senza guardarsi, quasi come dicendo le loro cose ognuno a se stesso, alla propria coscienza, conservando le stesse espressioni, la medesima faccia, quasi usando le stesse parole. Il treno si fermò in qualche stazione, salirono e scesero diverse persone, ma i due vecchi rimasero imperterriti esattamente dov’erano, come se tutto quel movimento non li riguardasse per niente. “Eh si…”, diceva uno dei due, e andavano avanti. Poi arrivò anche la loro stazione, un paesino di mare deserto in inverno, e loro si alzarono, si misero davanti allo sportello del treno, attesero che si fermasse il convoglio, che si aprissero le porte pneumatiche, poi scesero. I loro passi erano corti e decisi, la loro strada portava diritta verso le case sopra la spiaggia, spesso poco più che baracche scolpite dai venti e dal sale di mare. Forse erano rimasti da soli a cercare ancora qualcosa in quel posto, forse appariva insignificante anche quel loro tragitto, quel loro percorso, ma non era così anche per loro. Infine bussarono a una piccola porta di legno, senza insistere, e dopo pochi momenti, con garbo infinito e educazione, entrarono in casa, perché la porta era aperta, soltanto accostata, come a permettere a chiunque di entrarvi. Un uomo della loro medesima età sorrise vedendoli, e restando fermo in fondo alla stanza, seduto sulla sua sedia a rotelle, li salutò evitando di esagerare, solo chiedendo loro di prendere una sedia e sedersi, proprio lì, accanto a lui. Fu allora che i due vecchi si tolsero i loro giacconi, e si misero comodi, e tutt’e tre si voltarono con le sedie per guardar fuori dalla finestra che dava sul mare per scrutare l’orizzonte, a parlare, a scambiarsi le parole che conoscevano bene, i loro discorsi di sempre, ma senza guardarsi, come parlando ognuno a se stesso, e uno dei tre continuava a dire quando c’era qualche silenzio: “Eh si…”, e gli altri sapevano perfettamente cosa intendesse.

Bruno Magnolfi

Un soffio di mareultima modifica: 2009-12-18T22:55:48+01:00da magnonove
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2 pensieri su “Un soffio di mare

  1. Gran bel racconto, si avvertono i silenzi e il suono del vento, e l’odore del mare che che penetra da per tutto”. Leggere questo suo racconto mi ha riportato alla mente un soffio di ricordi.
    Da bambina ho trascorso per diversi anni delle lughe estati in un isola del mar jonio abitata da soli pescatori; le mie estati incominciavano a Maggio e finivano ad Ottobre inoltrato, erano le mie estati terapia”,a sei anni ero stata contagiata da una strana malatia, che mi debilitò moltissimo, e per questo mi fù prescritta una terapia a base di iodio, il mare ne è ricco, quindi mi fù prescritto tanto mare e tanto sole, ed io insieme a mio nonno materno trascorsi diverse estati in compagnia di pescatori .
    Ero troppo timida come bambina per parlare con loro e loro erano troppo indaffarati e impacciati per parlare con me, ma alla fine di ogni estate io donavo loro un mio disegno e loro mi regalavano una conchiglia.

  2. Ora Flavia29 con tutto il rispetto per tua storia, ma che centra con questa storia? Certo che voi donne siete egocentriche da morire, e se non parlate di voi non siete mai contente. La storia parla di silenzi di mare e di vite difficili, la vita del pescatore di certo non è una vita facile, e bisognerebbe dargli il giusto rispetto. Bella storia signor Magnolfi.

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