Dialogo n. 1. Migliori delle apparenze.

            

            Un uomo, da solo, siede su una panchina di piazza del popolo. Ha un cappello, un soprabito, calzoni scuri, e forse nessuno lo noterebbe, se non fosse che appare impacciato nei movimenti in quanto gli manca una mano. Lo guardo, fingo indifferenza mentre gli passo davanti. Poi torno indietro, con calma; lui mi osserva, incuriosito dal mio comportamento. Buongiorno, dico; certe volte si notano certe somiglianze tra due persone che sembra quasi impossibile non accorgersene. Lui non dice niente, non cambia neppure espressione, si sistema semplicemente il soprabito con l’unico braccio che ha, quasi a mostrarmi la sua distinzione, poi volge lo sguardo da un’altra parte.

 Mi allontano, attraverso la piazza, passo davanti al caffè pieno di gente, mi trattengo un momento per indecisione, infine torno indietro e ripasso dal medesimo marciapiede; lui è ancora lì, mi vede, dice: guardi, non credo mi possa scambiare per qualcun altro, e mostra con determinazione la manica vuota. Ha ragione, dico, ma non ha alcuna importanza, non vorrei importunarla, però mi sembra non ci sia niente di male se le dico che la sua faccia è come se avesse per me qualcosa di familiare, qualcosa che mi pare quasi di conoscere da sempre.

            Si, lo capisco, dice lui, a volte succede, non deve credere che non riesca ad immaginarlo; il fatto è che forse sono proprio io ad essere un po’ prevenuto, mi sembra sempre che chiunque tenti di avvicinarmi, anche chi semplicemente mi passa accanto, mostri per me contemporaneamente sia curiosità che ripulsa, quasi tentasse di ricordarmi la mia menomazione, che ho un braccio solo, insomma, anche se l’incidente che è accaduto a me, in fondo potrebbe accadere a chiunque. 

            Le posso offrire un caffè?, dico indicando il bar, mentre continuo a sostare davanti a quell’uomo. Lui si guarda un attimo attorno, con i modi tipici di chi non si fida, cerca di prendere tempo, forse di inventare una scusa per non accettare. Grazie, dice poco dopo, ma sarà per un’altra volta, adesso vorrei soltanto starmene qui, da solo, a pensare ai miei guai. Va bene, gli dico, e faccio per allontanarmi forse leggermente deluso, ma l’uomo dopo un attimo si alza e mi chiama: senta, dice, non ce l’ho affatto con lei e neanche col resto del mondo, è solo che spesso mi sento a disagio, e a volte non riesco a digerire di dover essere diverso da tutti: mi pare soltanto di sentirmi goffo, e che la mia menomazione generi a me e agli altri soltanto problemi.

            Siamo tutti esseri goffi, dico senza grande convinzione ma soltanto cercando di metterlo maggiormente a suo agio; i segni che ci portiamo addosso sono semplicemente le tracce delle nostre esperienze, gli spiego, e le ferite che abbiamo acuiscono soltanto la nostra sensibilità, forse rendendoci anche migliori. Certe volte forse dovremo dimenticarci di noi, lasciarsi andare alle cose che accadono, ed accettare il confronto con tutti, senza continuamente pensare a noi stessi. Ma lei sicuramente chissà quante volte già sarà giunto alle medesime conclusioni.

            Certo, ha ragione, dice l’uomo; ma adesso non posso ugualmente accettare il suo invito per il caffè: potrei apparirle soltanto privo di personalità, uno che si lascia convincere in fretta da poche parole, e questo non lo vorrei proprio. Però posso fare una cosa diversa: posso essere io ad invitarla per offrirle un caffè, e così, se lei accetta, dimostrerà esattamente ciò che ha appena finito di dire, e in questa maniera potremo sentirci ambedue su una posizione maggiormente unitaria.

            Bruno Magnolfi

Dialogo n. 1. Migliori delle apparenze.ultima modifica: 2012-09-20T15:10:57+02:00da magnonove
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