Un giorno sono andato alla stazione dei treni, alla fine di una giornata qualsiasi. C’era calma, anche se era piena di gente. Ho girato avanti e indietro guardandomi attorno, senza far nulla. Mi pareva non mi venisse niente di buono a rimanermene lì, sfaccendato; ma nonostante questo pensiero restavo là dentro a camminare avanti e indietro tra le sale d’attesa e le biglietterie, come aspettando qualcosa, anche se non sapevo proprio neanche io cosa fosse. Osservavo i grandi orologi ogni tanto, poi continuavo a spostarmi su e giù, proprio come facevano tutti, godendomi le parole e le frasi smozzicate che i viaggiatori scambiavano continuamente tra loro, chi chiedendo qualche informazione, chi lamentandosi di qualche ritardo o di un disservizio registrato in mezzo alla bolgia dei convogli che arrivavano e partivano, in continuazione. Avevano sempre un motivo per parlare o starsene zitte, quelle persone, e avevano bagagli, a volte valigie ingombranti, osservavano il giornale o i tabelloni che si aggiornavano, e tiravano avanti, come perseguendo attività qualsiasi, di ogni giorno. Era divertente l’espressione di qualcuno, altri parevano seri, ma c’era pure chi si crucciava, e tutti si stringevano dentro ai cappotti, come se l’aria fredda che arrivava da tutte le parti li facesse sentire più soli. Poi la serata fece il suo corso, le persone poco alla volta si diradarono, e tutto assunse lentamente un aspetto più familiare. Quando fu l’ora adatta mi spinsi verso un lato, costeggiando la massicciata, appena fuori dalla stazione. C’era altra gente con me, alcuni correvano in quel buio tagliato da freddi lampioni, lungo la zona dei binari morti, coi respingenti di fine corsa bene in vista. Si individuava alla svelta il convoglio più adatto, uno fermo, che non sarebbe ripartito prima del giorno seguente, si apriva con circospezione lo sportello di un vagone, e ognuno si sceglieva uno scompartimento per sé. Non c’era alcun bisogno di parlare tra noi, a volte bastava solo un gesto, l’indicazione della mano, il resto veniva da solo. Ognuno sapeva perfettamente che in quella cuccia decisa per quella nottata ci portava dentro la propria miseria, la propria storia, i propri affanni, c’era rispetto tra noi. Forse non c’era neppure da vergognarsi, ma in fondo nessuno aveva voglia di farsi vedere dagli altri, di mostrare le condizioni a cui era arrivato. Là dentro ti sentivi in un riparo eccellente, tanto da affezionarti in un attimo a quei sedili, ai divani, al giornale lasciato da un viaggiatore, proprio come se fosse qualcosa di tuo. Ti sdraiavi nel buio, dentro al cappotto, cercando al più presto possibile il sonno, quel sonno che avrebbe rilanciato per il giorno seguente tutti i progetti di cui avevi piena la testa, che portavi con te, lì accanto a te, e questo era tutto. Restava la paura, il disagio, il buio e il freddo persistenti. I treni fischiavano e manovravano poco lontano, e l’immobilità di quel tuo riparo pareva irreale. Il sonno vero era pochissimo, contornato dai sobbalzi dei micro risvegli dati dai tanti rumori, e dalle immagini surreali di freddo e di ferro scostante che si mescolavano a dei sogni più dolci di cui forse tutti avevamo bisogno, ma che riuscivano a durare solo lo spazio di un niente. Quando poi al mattino presto uscii dal vagone e da quella stazione mi sentii senz’altro migliore, e non mi interessava di altro.
Bruno Magnolfi
“Non importa dove sei e cosa sarai diventato, l’impotante è che sotto il cappotto tu custodisca gelosamente i tuoi sogni, saranno loro ad indicarti la giusta via”. Gran bel racconto
“Non importa dove sei e cosa sarai diventato, l’impotante è che sotto il cappotto tu custodisca gelosamente i tuoi sogni, saranno loro ad indicarti la giusta via”. Gran bel racconto