"Progetti di normalità", di Bruno Magnolfi

Sorrisi solitari

Lisa aveva vent’anni ed era grassa, una cicciona piena di spirito e di simpatia. Io ne avevo soltanto quindici di anni, ma mi sentivo suo amico. Andavo spesso a trovarla nella libreria dove lavorava, e mi trattenevo in negozio a parlare con lei: si parlava di libri, degli autori più noti, e Lisa mi spiegava quello che aveva imparato lavorando nella libreria. Il titolare si faceva vedere di rado, e lei mandava avanti tutto da sola dentro al negozio. La conoscevo da tanto, perché Lisa abitava nella mia strada, proprio una vicina di casa. Spesso mi prestava dei libri, con la sola avvertenza di leggerli aprendo le pagine il meno possibile, ma il bello, là dentro alla sua libreria, era che spesso si poteva star seduti in una zona sul retro dalla quale si teneva sott’occhio la porta di entrata, così, se non arrivano clienti a rompere l’anima, si stava perfettamente tranquilli. Ci tenevamo compagnia, soprattutto, e certe volte io rimanevo con lei fino all’ora in cui chiudeva il negozio, lasciandomi dare un passaggio fino a casa con la sua piccola macchina. Pareva che gli uomini, a Lisa, non la interessassero troppo, anzi, per niente: le piaceva soprattutto mangiare, a qualsiasi ora del giorno, anche quando era al lavoro, così certe volte mi fermavo a prendere della focaccia ed andavo a mangiarla con lei, là sul retro. Lisa non si preoccupava per nulla della sua linea, e neppure di piacere ai ragazzi, mi diceva: “ho fame da morire!”, un po’ per scherzare, ma un po’ anche sul serio. Prima di lavorare aveva fatto il liceo, così mi aiutava visto che io ero soltanto al primo anno, oppure mi lasciava in un angolo per lasciarmi studiare, mentre lei stava dietro a qualche cliente. Per me fu bellissimo tutto quell’anno, mi piaceva da pazzi andare da lei, mi pareva non ci fosse altro luogo dove mi sentissi così bene come da Lisa. Un pomeriggio arrivò il titolare, e lei uscì assieme a me dal negozio. Mi disse che doveva passare da casa, e se l’accompagnavo a lei faceva piacere. Così prendemmo la sua piccola macchina e in dieci minuti si parcheggiò di fronte al portone. Entrammo e lei mi disse di stare tranquillo, in casa non c’era nessuno. Si occupò subito delle sue cose, poi mi invitò a sedere nel salottino dove si trovavano delle poltrone. Non mi sentivo a mio agio, non era come stare nella sua libreria: sentivo forte la sua femminilità che mi passava vicino, e le idee più bislacche mi tormentavano la testa. Immaginavo di dire o di fare qualcosa, ma era impossibile, non avrei mai potuto. Lei forse capì le mie sensazioni, disse qualche frase spiritosa girando attorno a quell’argomento, tanto per sciogliere un po’ la tensione, poi, d’improvviso, disse che era meglio se tornavamo al negozio. Ci alzammo, io la sfiorai mentre uscivo da quella stanza, ma quando fummo già nell’ingresso di casa, pronti ad aprire la porta ed uscire, lei forse riuscì a leggermi di  nuovo i pensieri, mi chiese di guardarla un momento, si voltò con lentezza e con altrettanta lentezza si tirò su la gonna. Enormi erano le sue cosce, e le mutande contenevano appena il sedere; passò solo qualche secondo, si ricompose lasciandosi andare in una risata sonora e chiedendomi, subito dopo, se mi era piaciuto lo scherzo. Rimasi perplesso, mi ci vollero più giorni e più settimane per superare le sensazioni che avevo provato, ma alla fine fui contento di quel suo comportamento, anche se cominciai a diradare le mie visite in libreria, fino a smetterle del tutto, l’anno seguente. Qualche anno più tardi lei si sposò andando ad abitare in un’altra città. Non l’ho più veduta, però in tante occasioni ho pensato qualcosa di lei, della sua libreria, dei suoi modi, e certe volte ho ripassato con la mente quel suo gesto incredibile, e spesso ho sorriso, senza possibilità di frenarmi, anche da solo.

Bruno Magnolfi

Sorrisi solitariultima modifica: 2009-09-21T18:55:21+02:00da
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