Attacco diretto.

 

“Non ci avevo neppure mai parlato, prima di adesso, però gli ho preso la mano, ed ho atteso con infinita pazienza che chiudesse i suoi occhi”, pensa lui da solo quasi sdoppiandosi dentro la sua mente, cercando in sé quella freddezza che il suo mestiere a volte gli richiede. Poi spiega ancora ai suoi pensieri di essersi semplicemente allontanato con lentezza nelle luci basse del notturno ospedaliero, nel suo piccolo reparto, dopo aver annotato l’orario e la situazione verificata, e di aver probabilmente pensato che tutti quanti in fondo siamo destinati a spegnerci, chi più lentamente, altri invece all’improvviso. Infine però ha telefonato a casa, perché in fondo non era neppure troppo tardi, e sua moglie gli ha risposto subito, come fosse quasi in sintonia almeno con alcuni dei suoi sentimenti più profondi. “Sono un po’ provato”, le dice adesso senza darle troppi dettagli, “anche se è normale che certe cose avvengano in un luogo come questo”. Poi ha riagganciato, si è seduto nello stretto ambulatorio in fondo al corridoio, ed ha iniziato a scrivere le pratiche e i dati del caso.

Adesso attende quasi con irrequietezza che qualcuno dei pochi pazienti in corsia schiacci il pulsante del campanello, che lo chiami, lo tenga impegnato, perché ha bisogno di sentirsi ancora in azione, di essere di nuovo utile a qualcosa, di riuscire a mandare avanti il suo lavoro, piuttosto che mettersi in un angolo a riflettere su tutto quello che accade e poi basta. Giungono rapidamente i colleghi che si occupano di queste cose, e prendono in carico la situazione; lui assiste alla sistemazione del corpo inerte di quella persona anziana, e nessuno tra loro scambia una sola parola, ognuno sa già perfettamente che cosa fare, ed ogni espressione di qualsiasi tipo apparirebbe solo superflua. Ed i suoi occhi per un momento sfondano il muro della nuda ed immodificabile realtà, assistendo quasi impotenti allo scorrere ordinario di un’intera vita davanti a loro, un’esistenza fatta di mille difficoltà, di risate, di piaceri, ma anche di tantissime giornate dure e tristi.

Poi i colleghi portano via tutto, lasciando soltanto alle loro spalle un posto vuoto, che lui con calma inizia a riassettare, nonostante l’ora notturna, con gesti semplici, misurati, che cercano per professionalità l’indifferenza massima, per lasciare accogliere al meglio proprio in quel letto, forse tra non molto, un altro corpo, un nuovo malato, un’altra vita intera in balia di un destino che appare immutabile eppure concreto. C’è un filo sottile che segna il margine tra il lavoro e l’emozione, e certe volte resta difficile tener distanti questi due mondi, anche se è così per tutti, e nessuno può pretendere di sentirsi maggiormente sensibile rispetto ad un altro. I minuti scorrono nel silenzio teso tra il corridoio e le camere, accompagnati da un debole ronzio di qualche lampada bassa. Lui cammina tra la porta d’entrata e la finestra, con passi leggeri e cadenzati, percorrendo quel tratto parecchie volte, quindi si ferma, torna a sedersi, riprende in mano le cartelle dei suoi pazienti.

Un nuovo giorno domani, dice il suo doppio; si volta una pagina, si devono affrontare altre cose, nuove difficoltà, far fronte ad ulteriori sacrifici. Ci vuole forza, lasciare rapidamente alle spalle altre nottate esattamente come sta trascorrendo questa, e dimenticare rapidamente ogni sguardo scambiato, ogni stretta di mano, ogni piccolo dolore trasmesso nell’aria da queste tante persone che ci si trova di fronte: anziani, sfortunati, fragili, facili prede, nella loro debolezza, di un attacco disumano e feroce, a cui non possiamo facilmente rimediare, ed appigliarci a tutto ciò in cui possiamo ancora essere utili, senza guardare mai indietro, perché questo è quanto ci è dato di fare, nient’altro. Poi però lui appoggia lentamente i fogli sopra il suo piccolo tavolo, ed una lacrima adesso inizia a scorrergli calma sopra il suo viso.

Bruno Magnolfi

Attacco diretto.ultima modifica: 2020-06-05T18:46:41+02:00da magnonove
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