Un saluto sofferto

Dentro lo scompartimento del treno non c’era nessuno, lei era entrata, aveva sistemato la sua borsa, poi si era seduta. Fuori dal finestrino il paesaggio correva via, nonostante fossero partiti solo da pochi minuti, e lei aveva osservato per un po’ quella campagna, quelle colline piacevoli, infine aveva aperto la rivista acquistata all’edicola della stazione, tanto per far passare un po’ di quelle due ore che la separavano dalla sua città.

Forse avrebbe dovuto avvertire la sua famiglia che stava tornando a casa qualche ora prima del solito, ma le piaceva l’idea di poter fare una sorpresa ai suoi genitori. Era bella quella sensazione, tra tutte quante era la sua preferita: sentire di aver sistemato le cose, portato avanti il proprio lavoro, assaporare la pace di tutto ciò che la circondava, e in questa meraviglia di tranquillità tornare in seno alla sua casa, meraviglia a sua volta, almeno per lei, sintesi di luogo perfetto e completo.

Ecco, tutto era a posto in quello scompartimento che correva veloce a rimorchio del treno, se non una piccola cosa, uno stupido oggetto rimasto in fondo a un sedile. Lei lo vide, ma solo quando il treno era ormai a metà strada dentro al suo sogno di pace, e stava lì, come se reclamasse qualcosa, ma solo da lei, soltanto dal suo rientro alla normalità, a quel suo semplice sentirsi contenta.

Un piccolissimo orsacchiotto di peluche, ecco cos’era, rimasto incastrato in mezzo a quei due sedili di fronte, dimenticato là dentro, quasi abbandonato chissà in quale fretta, senza che quei pochi minuti, da parte di chi lo aveva lasciato, fossero stati minimamente sufficienti a mostrarne l’assenza. Ma non solo: l’orsetto era probabilmente un regalo, e lo dimostrava il cellophane in cui era avvolto, e il piccolo biglietto allegato, con su scritto un nome e un augurio, come quelli che si fanno ai bambini da parte di parenti premurosi, che non dimenticano mai una cosa del genere, ma che adesso mostrava quanta importanza fosse racchiusa là dentro.

Lei prese con sé l’orsacchiotto, improvvisamente stordita da qualcosa che smontava il suo dolce ritorno in famiglia; cercò di riflettere a fondo si tutti i significati che portava con sé quell’oggetto, restando in balia di pensieri che non riusciva neppure a classificare. Guardò fuori, mentre il paesaggio si faceva più triste, gli alberi ossuti, le nuvole basse sopra al contorno della campagna, e lei si sentiva improvvisamente coinvolta in qualcosa che la lasciava impotente.

Cercò di riflettere su che cosa era possibile fare, ma le venne improvvisamente da piangere, senza comprendere a fondo il motivo del suo disagio, solo come per uno sfogo rispetto a qualcosa su cui il suo controllo era assolutamente impossibile. Osservò ancora a lungo quell’orsacchiotto nelle sue mani, le pareva quasi di stringere a sé quel bambino a cui la disattenzione di qualcuno gli aveva sottratto un motivo di felicità, ma all’improvviso sentì la voce del controllore nello scompartimento vicino, che chiedeva di visionare i biglietti. In un attimo aprì il finestrino e abbandonò al vento e alla campagna l’orsetto, come se qualcosa di quel dolce peluche avesse improvvisamente iniziato a scottarle nelle sue mani. Il controllore disse soltanto: buonasera; al momento che si affacciò al suo scompartimento; ma lei si sentì bene, improvvisamente a suo agio, come capace di dimostrare a chiunque che stava rientrando in famiglia, senza avere proprio nulla di tralasciato alle spalle, come se tutto il suo mondo fosse perfettamente in equilibrio con il suo sentirsi a suo agio. Proprio con questo sentimento gli porse il biglietto, contraccambiando il saluto.

Bruno Magnolfi

Un saluto soffertoultima modifica: 2010-10-31T22:29:07+01:00da magnonove
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