Carla sorrideva. Qualche volta avevo cercato di parlare con lei per spiegarle qualcosa, o farle qualche domanda. Lei mi guardava per istanti lunghissimi, diceva qualcosa di vago, poi riprendeva a sorridere. Sapevo bene che lei comprendeva tutto quello che cercavo di dirle. Ma quello era il suo solo modo di tenersi distante da tutto. Le avevano amputato una gamba per via di un brutto incidente, avrà avuto poco più di vent’anni e si era appena sposata. La sua depressione dopo quei fatti era andata negli anni oltre qualsiasi immaginazione. Decine di volte avevano cercato di impedirle il suicidio, riuscendoci, ma solo parzialmente. Lei si era poco per volta rinchiusa in qualcosa che nessuno riusciva ad aprire, ed era talmente contenta di essere forte, più forte di tutti, al punto che continuava a sorridere, a sorridere a tutti. Suo marito, nei periodi in cui Carla stava da noi, veniva a trovarla ogni giorno. Poi lei migliorava, lui la prendeva sopra le braccia da sopra la carrozzella dell’istituto, e la riportava nella sua casa. Purtroppo non passava mai tanto tempo, e Carla, nonostante quei farmaci, le cure, le parole di chi le aveva sempre voluto un gran bene, nonostante forse il suo stesso volere, ricadeva di nuovo nella depressione più nera, e tornava di nuovo da noi, come a farci una visita, a regalarci il suo sorriso di sempre e l’angoscia per tutti. Lì in clinica eravamo abituati ai suoi modi, a quella sua espressione simpatica. Pareva la più aperta di tutti, ma quel suo modo nascondeva una chiusura totale. Con suo marito eravamo diventati quasi amici: ci fermavamo a parlare, a cercare la leva per scardinare le cose, a scambiarci impressioni, dettagli, pensieri. Poi ci voltavamo a guardarla: la Carla era lì, con quel suo viso dolce che non aveva accettato una realtà per lei troppo amara, nonostante gli sforzi, la voglia, l’amore che iniettavamo ogni giorno dentro di lei. Non la perdevamo di vista, la Carla era sempre nel corridoio, su e giù con la sua carrozzella. Un giorno che in giro non c’era nessuno, andai da lei. Le dissi serio: “Ascolta, con me puoi togliere pure la maschera. Ho capito il tuo gioco. Non so come fai, però so come sei.” Lei mi guardò senza sorridere, poi si voltò come a volermi evitare. Non insistetti, però capii che era quella la strada. Il giorno seguente provai di nuovo a parlarle, ma tutto andò come sempre. Un giorno diverso, mentre passavo lì accanto, mi prese la mano. La guardai, lei sorrise, poi disse: “Vorrei andare via”. “Perché?”, chiesi; noi ti vogliamo un gran bene, siamo pronti a far tutto per te…”. “Non merito niente”, disse, e nient’altro. I medici con i loro consulti non erano mai riusciti a capire dove trovare la chiave per aprire almeno un leggero spiraglio, ma continuavano a dirci cosa fare con lei, quale comportamento tenere. Tutto inutile, se la Carla un giorno fosse cambiata lo avrebbe fatto da sé, ne ero convinto, avrebbe cambiato le cose soltanto se lei lo avesse deciso. Passarono gli anni con questo andirivieni che non trovava né un freno e neppure una soluzione. Poi d’improvviso le cose cambiarono davvero. L’ultimo giorno che la Carla stette da noi, mentre spingevo la sua carrozzella, mi disse: “Ho deciso: vado via”. Mi fecero paura quelle parole, ma non ribattei niente, mi limitai a guardarla ancora una volta, a vedere il suo sguardo, a cercare di afferrare qualcosa di lei, e quando arrivò il suo marito non sorrise a nessuno, la Carla: si fece prendere, come sempre, sopra le braccia, e dolcemente lasciò l’istituto. E non ci tornò. Più.
Bruno Magnolfi
il senso di vuoto profondo , la voglia di lasciarsi andare, finisce per rende tutto estraneo, e il senso di distacco diventa liquido e si mescola al sangue e la linfa che fino a qualche attimo fà scorreva vitale nel nostro corpo, sembra fermarsi, e tutto sembra sprofondare, la depressione inizia così, e lentamente ci separa dalla vita, tutto scompare, anche il sorriso di Carla, mescolato al pianto finirà per sparire completamente, lasciandole sul viso un espressione distaccata e lontana.