La sua infanzia per strada se la ricordava costellata di piccoli, scuri, insignificanti, uomini anziani, lenti e silenziosi, che abitavano in qualche casa lungo la strada dove abitava anche lui. Da ragazzi, quando giocavano a pallone nella polvere di un campetto sterrato poco distante, quei vecchietti guardavano, ma senza un grande interesse, girellando attorno come evitando di dare noia, abbozzando appena un sorriso quelle rare volte che qualcosa o qualcuno facevano divertire tutti i presenti. Poi se ne andavano, sempre in silenzio, così com’erano apparsi, e nessuno dei ragazzi si preoccupava mai di indirizzare un saluto nei loro confronti, o di chiedere in giro quale fosse il nome di qualcuno di loro, perché tanto nessuno dei ragazzi aveva mai da chiamarli per nome. A volte i ragazzi tra loro dicevano, riferendosi a quei pensionati senza niente da fare: “quello piccino, col cappello sugli occhi”; oppure: “ quello che si vede di rado, con quella giacchetta marrone”. Erano in quattro o cinque, quel gruppo di vecchi, ognuno da solo, e se ne andavano in giro, senza far niente, con le mani affondate dentro alle tasche, qualcuno fumando una sigaretta ogni tanto, e nient’altro. Non erano niente, per tutti i ragazzi che abitavano dentro al quartiere, poco più di una presenza che non aveva alcuna importanza, e se c’erano o no la differenza non era neanche una cosa di cui fare caso. Poi un giorno, uno di loro, quello piccolo che aveva sempre un’espressione da timido, al margine del loro campetto da calcio, si era accasciato, senza dire parola. Non aveva parlato, come per non disturbare, non aveva chiesto aiuto, si era solo sdraiato sopra la terra, mettendo avanti prima le mani, poi lasciandosi andare su un fianco. I ragazzi erano tutti andati a vedere, interrompendo qualsiasi altra cosa: lo avevano scosso, chiamato, gli avevano anche girato la faccia per dargli più aria, per capire se era soltanto un leggero malessere, un mancamento che a volte gli uomini anziani potevano avere. Poi avevano cominciato a capire, in due erano corsi a chiamare qualcuno, qualcuno più grande di loro, e gli altri si erano messi attorno ma un po’ più distanti, forse per un rispetto che neanche loro sapevano dove trovare. All’improvviso, nell’espressione dell’uomo appoggiato sopra la terra, c’era la condizione di tutti, tutti coloro che giocavano, ridevano, fingevano di stare al di sopra di tutto, e invece adesso erano lì, assieme a lui, nella condizione e nel destino di tutti, durante un pomeriggio qualsiasi, vicino a persone che non sapevano neppure il suo nome. Se n’era andato quel vecchio, così, senza dir niente, lasciando a ricordo di sé quella sua espressione bonaria, quel silenzio, quella presenza senza disturbo, quella timidezza di anziano che i ragazzi non avrebbero dimenticato mai più.
Bruno Magnolfi
Bellissimo racconto, delicato e toccante: la vita sorprende e lascia il segno anche nel naturale susseguirsi degli eventi.Complimenti per il tuo blog.
Ho da poco aperto un blog nel quale invito i Lettori a raccontare le suggestioni che una parola sa offrire loro: se ti va di partecipare,mi piacerebbe che passassi a trovarmi.Buona settimana.
I vecchi ci fanno, senza dirlo e senza farlo pesare, un grande regalo, ogni giorno: ci mostrano la debolezza e la grandezza della vita umana.
Ci mostrano ciò che conta in mezzo a tante cose che non contano, ci riportano alla densità e alla profondità della vita, proprio perchè la debolezza del corpo non accetta mezze misure.Chede delicatezza, pazienza, tenerezza, attenzione, chiede contatto, apprezzamento, oltre gli steriotipi. Grazie dunque per questo racconto, che mette con grande sensibilità in luce ciò che questa socetà, ha relegato al buio.
Gli anziani sono l’umano senza cornoci, senza coperture, senza cerone, senza paura di essere umani.
Questa società che emargina, che eslude, ha finito, per non rendere visibili anche i vecchi, i vecchi senza nome, i vecch qualsiasi, loro non esistono.
I vecchi ci offrono l’occasione di riaffermare una civiltà dell’essere sulla civiltà dell’avere, affermando una cultura delle relazioni umane su una cultura della fretta.
Una società a misura di anziani è una società a misura di tutti. Bellisima storia, la seguo da un pò di tempo e come non notare i temi da lei trattati, lei dà voce a chi troppo spesso non trova la forza di urlare!
Grazie !
Viviamo immersi in un paradosso. Desideriamo tutti vivere e vivere a lungo. Eppure la vecchiaia, quando non è con i colori pastello della pubblicità, e quando essere anziano smette di assomigliare all’essere giovani, fa molta paura.
La sua storia ci fà riflette tutti in un grande specchio, e non è un bel guardare.
Il suo racconto è contro corrente.
Gran bel racconto.