Una bicicletta da palcoscenico

Le assi del palco avevano scricchiolato quando ero entrato in scena camminando con calma, e le luci dei riflettori avevano avuto come un sapore caldo e mieloso nel loro fendere il buio in modo così risoluto. Rientrare in quello spazio, sopra quel legno polveroso, dentro a quelle chiazze di luce, era un po’ ritrovare lo spirito giusto, il senso, il coraggio preciso che come sempre serviva per farsi uscire le parole di bocca, le battute con la giusta intonazione, il corretto articolato, l’adeguata scansione. Tutto, anche i più minuti dettagli, serviva a formare una serata speciale, laddove il mestiere finisce ed il resto è emozione, è spirito, è voglia di dare, maggiore di qualsiasi necessità di ricevere. Il mio personaggio era minore, si sedeva a lungo su un divanetto piazzato di sbieco sul palco, consumando la sua presenza come una candela votiva, ad attendere a lungo dentro alla scena, come un oggetto, un soprammobile insulso, un intruso, in un tempo sospeso in cui gli attori principali portavano avanti i dialoghi, il senso nascosto di quella trama, la commedia completa. Era lì, in quei momenti, che tutti i pensieri, per una sorta di magia delle luci e del palcoscenico davanti alla gente che ti osservava nel buio, prendevano come un corso proprio, una strada diversa, significati che sfuggivano pur conservando il nesso innegabile dell’emozione, allontanandosi in pochi attimi da dietro la maschera. La sensazione che era possibile avvertire in mezzo al ronzio delle luci, oltre a immaginarsi quel pubblico impegnato ad incrociare la propria capacità di sognare con quella di seguire l’autore nel senso di fondo che aveva voluto dare al suo lavoro finito, era un incoraggiamento alla fantasia, una voglia di emigrare da lì, di svolazzare lontano, di trovare quei fili sottili che per qualche strada traversa portavano altrove. Ecco, nonostante il mestiere di attore, nonostante quel pubblico, la scena, le luci, tutto quanto quel palcoscenico, ecco, si poteva partire, andare lontano. E a prendere per mano tutta questa voglia di niente, questa urgenza di sogno, questa fuga in avanti a superare qualcosa di così poco palpabile tanto da avere la consistenza del fumo, c’era il ricordo, sopra quel divanetto, il ricordo inspiegabile e urgente, pronto ad avvolgere tutto, la scena, le luci, gli attori, tutto il pubblico stesso. – Il babbo quella sera aveva portato una piccola bicicletta, e l’aveva sistemata vicina al cancello di casa, come un oggetto in attesa. – Questo era il ricordo che pressava più di ogni altro. – Mi aveva chiamato, e con uno stratagemma qualsiasi mi aveva portato a vederla. Mi aveva chiesto un parere, ed io, con l’età dei miei cinque anni, avevo detto che era meravigliosa, non potevo pensare nient’altro. Era stata già usata da un altro bambino, non ci potevamo permettere molto, ma questo non era assolutamente importante. Nei mesi seguenti sarei diventato tutt’uno con quella mia bicicletta, fino a sentirmi personaggio del circo, a meravigliare la gente accorsa a vedere, a rendersi conto del mio equilibrio perfetto, della capacità di eseguire dei numeri inediti, piroette inventate al momento, improvvisate sul filo di ruote e pedali e manubrio con in mezzo un sellino, e sopra al sellino la voglia di superare me stesso tra intuizione e coraggio, fantasia e ardimento. La mia bicicletta meravigliosa, sogno adeguato per traghettare la vita. – D’improvviso ero di nuovo sul palco, mi alzavo da quel divanetto, dicevo la mia frase e poi uscivo di scena; chissà dove avevo lasciato la mia bicicletta, pensavo, magari era ancora lì, sopra al palco, o tra il pubblico, o forse dietro le quinte, nascosta in un corridoio rimasto in disuso, ad attendere solo i miei sogni, i miei ricordi, tutta l’emozione del mondo.

Bruno Magnolfi

Una bicicletta da palcoscenicoultima modifica: 2010-02-15T15:44:25+01:00da magnonove
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