Quasi una favola urbana.

            

            Oggi ho deciso di non uscire da casa. Stamani non ho neppure aperto le tende delle finestre, neanche gli scuri; ho lasciato che la luce del sole rimanesse al di fuori, a rischiarare le facciate delle case, gli alberi dei giardinetti, i cappelli delle signore eleganti lungo i marciapiedi. Ho atteso con pazienza che i rumori nei muri attorno al mio appartamento divenissero più familiari, si lasciassero riconoscere, poco per volta, e alla fine ho deciso che non avevo voglia di niente, che non avevo bisogno di nulla. Così mi sono seduto, ho pensato qualcosa, ma forse anche questa attività mi è stata dettata soltanto da una sciocca abitudine.

            Poi è suonato il telefono, qualcuno ha detto con voce rauca il mio nome, mi ha chiesto sgarbatamente cosa facessi ancora rinchiuso nella mia casa, ma io mi sono limitato a riferire che la salute precaria, almeno quel giorno, non mi permetteva di uscire, nient’altro. L’altro ha insistito, voleva sapere la ragione principale che mi aveva fatto maturare quella splendida scelta, calcando con ironia quella frase, e ancora: se quella malattia di cui parlavo tanto, così importante da bloccare i miei impegni, fosse dovuta realmente a qualcosa di serio. Allora ho cercato di spiegare meglio il mio punto di vista, ma cercando le parole più giuste mi sono un po’ impappinato, ho perso il filo del discorso che volevo imbastire, e in una pausa piena di disagio ho allargato il pensiero iniziando improvvisamente a parlare di altro, come cercando di eludere quelle domande, forse soltanto perché per mio parere c’erano adesso cose ben più importanti di cui discorrere.

            Tutto è sotto controllo, ho detto velocemente con voce bassa; il messaggio è stato inserito dove lei sa perfettamente, tra le righe di un annuncio economico di un giornale nazionale, e anche se questa telefonata risultasse controllata, nessuno saprebbe mai come ritrovare le informazioni principali. Il codice usato per questa operazione è il medesimo della volta precedente, e lei non si deve preoccupare per me, ho continuato quasi a riflettere, ma a voce alta, usando un timbro di voce che risultasse, sia per me che per lui, rassicurante; ciò che doveva essere fatto è stato già completato, il resto sarà soltanto frutto di scelte maturate da chi sappiamo nei prossimi giorni, ho detto senza lasciare che quello mi interrompesse.

            L’altro alla fine ha bofonchiato qualcosa tra sé, quindi ha riattaccato il telefono senza neppure salutarmi, ed io in quel momento ho sentito dei piccoli rumori elettronici lungo la linea, indizi evidenti a conferma del fatto che quel telefono era davvero sotto controllo. Allora ho staccato la spina, sono entrato nella cucina del mio appartamento e mi sono preso una mela da dentro la fruttiera nella dispensa. Infine mi sono seduto ed ho addentato con forza quel frutto, quasi fosse l’elemento da neutralizzare. Inizialmente non mi sono accorto del sapore poco ordinario, ed ho continuato a mordere la mela senza preoccuparmi di niente. Il veleno probabilmente ha iniziato a produrre i suoi effetti subito dopo: credo di aver perso i sensi in pochi secondi, tutto si è annebbiato velocemente, ed ho provato la voglia di vedere di nuovo quel sole rimasto chiuso fuori da lì, ma mi sono reso conto che era ormai troppo tardi.

            Al mio risveglio tutto era identico, e questo fatto mi è subito sembrato ancora peggiore di ciò che sarebbe mai stato possibile immaginare.       

            Bruno Magnolfi

Quasi una favola urbana.ultima modifica: 2011-11-18T22:20:57+01:00da magnonove
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