2 settembre 2009 – Lasciare e perdere

Il motore del camion mugghiava nello sforzo di trainare quei dieci metri cubi di calcestruzzo bello pronto e impastato dentro la betoniera che continuava a girare e a lavorarlo al suo interno, mentre mi avvicinavo al posto di scarico. Chissà stavolta a cosa servivano quei quasi duecento quintali di ghiaia e cemento: a fare un muro, una fondazione, il pilastro di un ponte, una travatura? Il mio lavoro non prevedeva curiosità di quel genere, a volte il materiale era più chiaro e a volte più scuro, ma a me non spettava preoccuparmi del suo colore. Col mio camion caricavo all’impianto quanto era stato ordinato, mi scrivevo l’indirizzo di destinazione e via, a scaricare l’impasto dentro al cantiere, dove mi diceva il geometra, più sodo, più fluido, lentamente, tutto come voleva; infine lavavo la mia betoniera da tutti i residui, ed ero pronto per un nuovo viaggio e un’altra consegna. Eppure certe volte mi pareva impossibile. Impossibile che ogni giorno ci fosse bisogno di tutto quel calcestruzzo, pronto a infilarsi dentro alle casseformi, a scorrere lungo i pannelli di legno, ad avvolgere le strutture d’acciaio preparate. Incredibile quanto cemento veniva colato, senza battute d’arresto, senza soste quella cementificazione continua. Facevo sei, sette viaggi ogni giorno così, e avevo trenta colleghi che lavoravano con un camion identico al mio, tutti autisti e padroni di quel proprio mezzo. In fondo era soltanto un mestiere, a volte pensavo, ma tutto quel materiale che intanto induriva e prendeva la forma mi lasciava perplesso. All’impianto, quando facevo la fila per caricare, era quello l’unico momento in cui tra colleghi, tutti ragazzoni della mia età, si poteva scambiare qualche parola, giusto per affrontare argomenti triti, buoni per dirsi le battute di sempre, ma spesso cercavo di evitare che qualcuno mi parlasse in maniera diretta, limitandomi ad ascoltare quello che dicevano gli altri. Parlare con loro di problemi relativi alla quantità di cemento che veniva prodotta, alla sabbia e alla ghiaia utilizzata, o cose del genere, neanche a pensarci: avevo provato qualche volta a capire cosa sapessero, a voce alta avevo detto ciò che pensavo, ma ognuno svolge il proprio lavoro, dicevano, e noi più si gira più si guadagna, non è il caso di porsi tante domande. Ma negli ultimi tempi era arrivata una nuova ragazza a lavorare dentro l’ufficio; dicevano fosse la figlia di uno dei soci. Si vedeva di rado sopra al piazzale, in mezzo alla polvere bianca di inerti e cemento, e a me pareva impossibile che una ragazza del genere lavorasse là dentro. La osservavo, mentre aspettavo il mio turno, oltre il vetro di quell’ufficio, e a volte anche lei mi guardava. Poi un giorno ero andato dentro per prendere il documento di trasporto e l’indirizzo relativo a uno scarico, e lei era rimasta sopra al suo tavolo con gli occhi sui fogli, in quell’attimo in cui ci trovammo da soli. “Ciao, Elena”, dissi con la voce più naturale che mi fosse possibile, anche se non ci eravamo mai presentati. Lei alzò lo sguardo, mi osservò solo un istante, poi disse: “Se solo faccio vedere che ho maggiore simpatia per qualcuno, qui dentro mi mangiano”, così non dissi più niente, presi i miei fogli ed uscii. Ma qualcosa era cambiato, e quando qualche giorno più tardi capitò l’occasione ed entrai di nuovo dentro al suo ufficio, le lasciai scivolare sopra la sua scrivania un foglietto piegato con su scritto il mio nome e il mio numero di telefono. Quando mi chiamò, disse soltanto che le dispiaceva, ma quella sarebbe stata la sua unica telefonata per me. Mi spiegò che era meglio non fare troppe domande, che ero tenuto sott’occhio per via dei discorsi che a volte avevo affrontato, che ero ritenuto uno scomodo. “Stai attento”, mi disse, “se sbagli qualcosa darai l’occasione per non chiamarti mai più a lavorare. Non domandarmi nient’altro. Devo salutarti. Lasciami perdere: non sono adatta per te…”.

Bruno Magnolfi

2 settembre 2009 – Lasciare e perdereultima modifica: 2009-09-02T20:41:30+02:00da magnonove
Reposta per primo quest’articolo

8 pensieri su “2 settembre 2009 – Lasciare e perdere

  1. Certo..Gronko, te la raccomando quella mafiosa dell’ Elena..Meglio perdere entrambi..sia il lavoro che L’Elena, degna figlia di suo padre!!!
    Ma allargare gli orizzonti no eh? ambiente di lavoro che fà pena ..datori di lavoro da schifo e sarà stata pure carina l’Elena..ma è in tono con l’ambiente!

  2. Cosa c’è da trovare o salvare in questa situazione descritta? Nel racconto che ho appena letto è evidente che c’è solo da scappare via a gambe levate..senza nemmeno fermarsi a pensare!!Ragazzi il mondo è pieno di gente migliore e di lavori migliori, meno pagati, forse, ma tanto più liberi!

  3. Sarà che a me piacciono le sfide, ma io non molleri e tampinerei l’Elena perchè impari a vivere, per dargli una bella lezione di vita!
    Non si vive di paure.
    In questo racconto scarseggia il coraggio..E’ descritto solo un mondo di piccoli uomini ‘ignoranti e una misera e piccola donnetta, spenta e asservita ad una mentalità becera e mafiosa!

  4. Il calcestruzzo impoverito è un problema molto attuale, e la cementificazione è un’attività che va avanti ogni giorno. Quando ogni volta incrociamo per strada i camion-betoniera fingiamo che tutto sia a posto. Ma sarà poi così o il racconto è di puro realismo?

  5. Grazie Penny, avevo chiaramente compreso questo, lo scrittore infatti si dilunga apposta sulla descrizione del calcestruzzo, fà notare come il protagonista si soffermi ad osservare e ad annotare i vari colori del composto che trasporta sul suo camion, e sulle sue diverse densità, su i mancati controlli.. e le domande che il protagonista pone, sono attinenti all’argomento; ed è per questo che scrivo che avrei creato scompiglio, che non avrei mollato, la presa, e che non sarei andato via, e che avrei dato il tormento a gente così. Reputo quella gente ignorante sotto l’aspetto di crescita civlie, tutte le persone coinvolte compresa l’Elena dimostrano questo..la mafia e la camorra fondano le loro radici in terreni dove prevale un disperato bisogno, e dove l’individualità di ogn’uno prevale sulla collettività, girarsi dall’altra parte, e far finta di non vedere o fare la riservata come fà l’Elena li rende tutti ugualmente complici, e il loro “tenersi fuori” apparente, in realtà non salverà le centinaia di vite che pagheranno per questo.

  6. Penny, perdonalo infondo Gronko, ci prova sempre, con tutte.
    Appalto pubblico, non credo che il calce struzzo impoverito sia un problema attuale, credo piuttoto che sia un argometo d’attualità, visto le ultime dolorose vicende.Questi crimini sono diffusi da molto tempo, oserei dire dalla ricostruzione” del dopo guerra ad oggi, senza considerare che questi composti hanno una scadenza nel tempo. Naturalmnte, lo stato è assente, latitante come sempre, mancano i controlli e le ditte che lavorano in questi ambiti prosperano grazie alle protezioni e alle convivenze mafiose, nessuno escluso.

I commenti sono chiusi.